L’utilizzo dello sport come strumento di propaganda nelle dittature nazifasciste aveva come obiettivo, tra gli altri, anche quello riguardante il culto del corpo. La forza fisica al servizio della patria veniva esaltata quotidianamente nei mezzi di comunicazione di massa. I divi dello sport venivano osannati, talvolta al limite del trionfalismo, con una forte accentuazione alla loro ideologia ancor prima che alla loro nazionalità: l’atleta che aveva ottenuto ottimi risultati era fascista ancor prima che italiano. Tutte queste peculiarità dell’attività sportiva hanno contributo ad allargare e diffondere il consenso nelle popolazioni europee degli anni ’20 e ’30. I regimi del secolo scorso hanno rivoluzionato l’idea del panem et circenses di Giovenale, sono stati in grado di creare un sistema di controllo dei momenti di attività del tempo libero capace non soltanto di distrarre il pubblico, ma in grado persino di avvalorare le ideologie trainanti del sistema totalitario che avevano così potuto erigere.
L’importanza delle caratteristiche dello sport fu sfruttata da Mussolini e dai gerarchi fascisti nel corso del ventennio di regime in Italia. Essi avevano intuito che lo sport potesse essere strumento di propaganda per via delle peculiarità con cui riusciva a coinvolgere le masse. Le strategie utilizzate dai fascisti furono molteplici: dall’organizzazione dell’attività fisica nel tempo libero al fine di aggregare le persone sotto l’egida dell’ideologia fascista fino all’esaltazione dell’atleta-divo di razza italica, passando per il culto del corpo in cui si affacciava la dicotomia attività sportiva/attività militare.
Nel 1923, sull’onda della riforma scolastica ad opera di Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione, viene istituito l’Ente Nazionale Educazione Fisica che, dopo un fallimento iniziale dovuto ad ondivaghi programmi modificati varie volte nel corso dei pochi anni di vita, finì per confluire nell’Opera Nazionale Balilla. Quest’ultimo ente, istituito nel 1927, aveva come fine l’assistenza e l’educazione fisica e morale della gioventù. L’idea su cui si basò Renato Ricci, al quale fu affidato l’ente, era quella di organizzare l’attività fisica con sport strumentali alla preparazione militare e sport con forte valenza ricreativa. Nel 1936 venne nominato ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, che propose una riforma con il quale istituiva la Gioventù Italiana del Littorio. Questo nuovo ente sostituiva l’ONB e coinvolgeva tutti i giovani, d’ambo i sessi, dai 6 ai 21 anni. Tra i compiti della GIL vi era l’insegnamento dell’educazione fisica e la preparazione spirituale, sportiva e premilitare.
L’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa fu spietato nel corso del ventennio fascista e sicuramente la diffusione e l’attivo interesse verso lo sport contribuirono a rendere lo stesso uno dei canali preferenziali per l’aggregazione e la costruzione del consenso. Già dai primi anni Venti si diffuse il fenomeno dello sport-spettacolo e del professionismo, comparve il tifo e si sviluppò la mitologia sportiva costituita da campioni eroici e imprese leggendarie. L’intervento del regime in risposta a questa tendenza fu quella di costruire stadi che potessero ospitare decine di migliaia di spettatori e, soprattutto, di potenziare la stampa sportiva e la neonata radio. Le discipline che godevano di maggior successo nel periodo non erano soltanto le più affermate, ma anche quelle con la valenza ideologica più in linea con il regime. Il motorismo, ad esempio, richiamava il mito della velocità, la boxe invece il coraggio virile. Anche il calcio fu favorito dal regime per la sua innata capacità di formare lo spirito di squadra. Del calcio nel periodo fascista è sicuramente noto il ciclo di vittorie della nazionale di Vittorio Pozzo, ufficiale degli Alpini che condusse la nazionale alla vittoria di due coppe Rimet, competizione antenata dei Campionati mondiali di calcio.
Il calcio però non servì soltanto da collante sociale per la popolazione italiana che, tramite i racconti nelle radiocronache di Carosio viveva gli incontri come se ne fosse partecipe, ma riusciva ad entrare con forza nelle pagine della politica del periodo. È interessante notare che nel periodo successivo alla grande guerra gli incontri tra le nazionali italiana ed austriaca di calcio avevano più volte intersecato le relazioni diplomatiche dei due paesi. Tre incontri sportivi evidenziano queste interferenze, il primo dei quali, nel 1922 ebbe l’effetto di rompere l’isolamento sportivo nel quale si era cercato di relegare i paesi sconfitti. Il secondo incontro fu quello del 20 gennaio 1929 in cui il Wunderteam, la nazionale delle meraviglie di Hugo Meisl, batté la selezione italiana per 3 reti a 0. Quest’ultimo evento viene ricordato in quanto lo sport si era già affermato come sistema capace di distrarre i cittadini dalla politica e dall’economia e quindi risultò essere una “Caporetto” calcistica agli occhi degli appassionati dell’epoca. Il terzo evento fondamentale risultò essere la semifinale di Coppa Rimet in cui gli italiani, in uno Stadio San Siro in festa, superarono gli austriaci aprendo la strada al primo titolo mondiale della Nazionale di calcio. Il calcio nel periodo fascista godette di particolare autonomia e ciò era dovuto anche alle propensioni sportive di Mussolini, che aveva frequentato le sale da scherma e i ring della boxe ed era stato colpito dal mito della velocità futurista che lo aveva avvicinato ai motori. Questo disinteresse portò all’acquisizione di centralità da parte di Leandro Arpinati, podestà di Bologna e sottosegretario al ministero dell’Interno. Arpinati fu presidente della FIGC dal 1926 al 1933 e la sua presidenza fu caratterizzata da una forte impronta fascista nell’architettura sportiva che si rifletteva nella costruzione degli stadi.
Gli anni Trenta furono caratterizzati dai successi nella Coppa del Mondo del 1934 e del 1938, ma le imprese calcistiche della Nazionale venivano seguite con un impegno minore da parte dei vertici del regime. Fu sicuramente più massiccia la campagna pubblicitaria in occasione dei mondiali del 1938, quando la selezione nazionale trionfò in Francia dopo le dichiarazioni antifrancesi di Mussolini del maggio dello stesso anno. In quell’occasione la vittoria sportiva d’oltralpe assunse un’accentuata valenza politica e fu vista come espressione di una superiorità morale ed etnica degli italiani, alla vigilia del Manifesto della razza. Il rapporto di Mussolini col calcio fu decisamente utilitaristico. Egli aveva una schietta antipatia verso il calcio, non lo aveva mai praticato e non se ne era mai interessato neanche dopo la sua esplosione negli anni Dieci. Durante la sua prima volta allo stadio, per l’inaugurazione del Littorale di Bologna, subì l’attentato di Anteo Zamboni. Non si dichiarò mai tifoso di nessuna squadra, ma quando giocava la nazionale seguiva le partite ossessionato dalla vittoria azzurra. Negli anni Trenta fu spesso presente in tribuna e non mancò nell’occasione di presentare la vittoria della Coppa del Mondo come conquista fascista. La sua vicinanza alla squadra era sicuramente finalizzata ad un uso propagandistico della stessa: per esempio i suoi discorsi e i suoi incoraggiamenti ai giocatori della nazionale venivano riportati regolarmente nei giornali.